Affitto commerciale e canoni locativi maturati nel periodo del lock down

Il Tribunale di Roma con provvedimento del 29 maggio 2020, ha assunto una posizione assai interessante che si cala in un contesto generale caratterizzato da una notevole sensibilità in merito alla possibilità per il conduttore di immobile ad uso commerciale di sospendere o comunque mettere in discussione il pagamento del canone locativo nel periodo di lock-down.

Non esiste norma di carattere generale che preveda una sospensione dell’obbligo di corrispondere i canoni di locazione. L’assenza, da un lato, di una norma generale che detti una disciplina per tutti i rapporti di durata e la presenza, dall’altro, di una miriade di regole speciali emergenziali (sospensione dei termini di versamento di alcune imposte; proroga dei termini di pagamento delle rate di mutuo e dei finanziamenti; sospensione dei termini processuali) impone di prendere atto che il legislatore ha inteso, in relazione a talune, pur numerose, fattispecie, assumere iniziative di agevolazione ma nulla ha voluto disporre in ordine al quantum ed al quando del pagamento dei canoni di locazione commerciale o di affitto di azienda.

Nemmeno persuade il richiamo alle disposizioni di cui agli articoli 1175 e 1375 c.c. Se è certamente possibile far discendere da tali disposizione un obbligo di collaborazione di ciascuna delle parti alla realizzazione dell’interesse della controparte quando ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico, assai arduo ed in definitiva impercorribile appare invece il tentativo di dilatarne l’ambito applicativo sino a toccare in modo sensibile le obbligazioni principali del contratto, a partire dai tempi e dalla misura di corresponsione del canone; si tratterebbe, del resto, di esito interpretativo – oltre che sconosciuto alla giurisprudenza formatasi in argomento – che rischierebbe di minare la possibilità, per le parti, di confidare nella necessaria stabilità degli effetti del negozio (quanto meno, i principali) nei termini in cui l’autonomia contrattuale li ha determinati.

Non può trovare neppure accoglimento il richiamo all’art. 1467 c.c., trattandosi di rimedio incompatibile con la conservazione del contratto, ma idoneo solo a provocarne lo scioglimento.

Quanto all’impossibilità della prestazione ovvero al venir meno dell’obbligazione avente ad oggetto il corrispettivo per l’impossibilità di “utilizzare la prestazione contrattuale dovuta dalla resistente e specificamente usufruire non solo dei locali presso cui l’attività aziendale viene svolta, ma di tutto il complesso di beni che del ramo di azienda fanno parte”, occorre rilevare che un’applicazione combinata sia dell’articolo 1256 c.c. (norma generale in materia di obbligazioni) che dell’articolo 1464 c.c.. (norma speciale in materia di contratti a prestazioni corrispettive), porta a ritenere che nel caso di specie ricorra una (del tutto peculiare) ipotesi di impossibilità della prestazione della resistente allo stesso tempo parziale (perché la prestazione della resistente è divenuta impossibile quanto all’obbligo di consentire all’affittuario, nei locali aziendali, l’esercizio del diritto a svolgere attività di vendita al dettaglio, ma è rimasta possibile, ricevibile ed utilizzata quanto alla concessione del diritto di uso dei locali, e quindi nella più limitata funzione di fruizione del negozio quale magazzino e deposito merci) e temporanea (perché l’inutilizzabilità del ramo di azienda per la vendita al dettaglio è stata ab origine limitata nel tempo, per poi venir meno dal 18 maggio 2020). La conseguenze di tale vicenda sul contratto – ferma la circostanza che, come già osservato, alcuna delle parti ha manifestato la volontà di sciogliersi dal vincolo contrattuale – non sono dunque né solamente quelle della impossibilità totale temporanea né quelle della impossibilità parziale definitiva (che determinerebbe, ex art. 1464, una riduzione parimenti definitiva del canone): trattandosi di impossibilità parziale temporanea, il riflesso sull’obbligo di corrispondere il canone sarà dunque quello di subire, ex art. 1464 c.c. una riduzione destinata, tuttavia, a cessare nel momento in cui la prestazione della resistente potrà tornare ad essere compiutamente eseguita.

Protocollo Studio Saija prevenzione COVID-19

IN OTTEMPERANZA ALLE NUOVE DISPOSIZIONE DEL GOVERNO IN TEMA DI PREVENZIONE DEL VIRUS CORONA(COVID-19), I GENTILI CLIENTI SONO PREGATI DI LEGGERE ATTENTAMENTE IL PROTOCOLLO COVID 19 CHE TROVERANNO ALL’INGRESSO.

È OBBLIGATORIO L’USO DELLA MASCHERINA ALL’INTERNO DELLA STRUTTURA.

IN CASO DI MANCANZA DI GREEN PASS SI PREGA DI AVVISARE E/O DI PRENDERE UN APPUNTAMENTO UTILIZZANDO I MEZZI TELEMATICI.

SONO INOLTRE TENUTI A COMPILARE UN QUESTIONARIO. PERTANTO AL FINE DI EVITARE PERDITE DI TEMPO, SI PREGA SI SCARICARE IL FILE QUI DI SOTTO ALLEGATO, COMPILARLO IN OGNI SUA PARTE, FIRMARLO ED INVIARLO ALL’INDIRIZZO MAIL INFO@STUDIOSAIJA.IT

AL FINE DI EVITARE GLI ASSEMBRAMENTI SI CHIEDE:

  1. IL RIGOROSO RISPETTO DEGLI ORARI;
  2. IL RIGOROSO RISPETTO DELLA DISTANZA INTERPERSONALE (NON MENO DI UN METRO);
  3. DI EVITARE CONTATTI FISICI.

SI INFORMANO I CLIENTI CHE L’INGRESSO PRESSO LA STRUTTURA COMPORTA LA DICHIARAZIONE CHE LO STESSO NON HA IN CORSO SINTOMI INFLUENZALI DI SORTA.

Divisione ereditaria

Quando più soggetti sono chiamati a succedere in un’eredità, non trovano un accordo per la ripartizione dei beni, e il defunto ha stabilito quali devono essere destinati a ognuno, il giudice, su domanda di uno
degli stessi coeredi, può provvedere alla ripartizione del patrimonio ereditario e allo scioglimento della comunione.

Se, alla morte di una persona, l’eredità spetta pro quota a più persone che l’accettano, si costituisce una comunione ereditaria.
I singoli eredi diventano tra loro, “coeredi”.
La comunione ereditaria ha per oggetto i beni che costituivano il patrimonio del defunto, con esclusione di quelli attribuiti dallo stesso a uno o più soggetti determinati, detti “legati”.
La comunione ereditaria si scioglie con la divisione dell’eredità e consiste nel frazionamento tra i diversi
eredi, in proporzione alla quota che spetta a ognuno, dei beni parte della comunione.
In questo modo, ogni singolo erede diventa unico proprietario esclusivo dei beni che gli vengono assegnati.
La divisione ereditaria può essere fatta in tre modi, dal defunto con il testamento, su accordo unanime dei coeredi, per mezzo di un procedimento giudiziale di divisione.
In questa circostanza, lo scioglimento della comunione si ha per ordine del giudice, su domanda di uno
qualsiasi dei coeredi.
Chi può chiedere la divisione giudiziale e chi deve partecipare al
giudizio
Ogni coerede, qualunque sia la quota che gli spetta, si può rivolgere al Tribunale per ottenere lo scioglimento della comunione e la divisione dei beni ereditari.
A partire dal 2013, prima di avviare una causa relativa a una divisione è si deve seguire un procedimento di mediazione davanti a un organismo riconosciuto dal Ministero della Giustizia, con l’assistenza di un avvocato.
Se la mediazione non viene esperita e la causa viene avviata lo stesso, entro la prima udienza il giudice può rilevare la “non procedibilità” della causa giudiziale.
La “non procedibilità” può essere fatta valere anche dalla controparte, vale a dire dal “convenuto”, che lo deve fare entro un preciso termine di decadenza.
Se la mediazione non riesce, la richiesta di divisione giudiziale può essere fatta in qualunque momento, anche a distanza di molti anni dall’apertura della successione, non essendo previsto nessun limite di tempo, salvo che il defunto abbia imposto che la divisione non si effettui sino al compimento del diciottesimo anno d’età del più giovane dei suoi eredi, oppure per un tempo massimo di cinque anni dalla sua morte.
Il giudizio di divisione deve essere promosso nei confronti dei coeredi che non abbiano rinunciato all’eredità e, se ce ne sono, dei creditori opponenti, vale a dire, i creditori di ogni erede che abbiano manifestato la loro opposizione.
AL giudizio devono partecipare anche i creditori che abbiano garanzie sui beni della massa ereditaria, come ad esempio, un’ipoteca iscritta su un immobile che apparteneva al defunto, e coloro che abbiano diritti su un bene immobile ereditario, come, ad esempio, l’inquilino che abbia in corso un contratto di locazione ultradecennale su un bene immobile oggetto di divisione.
Il Tribunale che segue il giudizio di divisione
Dopo avere tentato senza successo la mediazione con l’apposito procedimento, il coerede che voglia promuovere un giudizio di divisione si deve rivolgere al Tribunale del luogo nel quale si è aperta la successione, che coincide con l’ultimo domicilio del defunto.
Lo stesso se i beni che ricadono nella comunione si trovano in un luogo diverso.
Se ad esempio, il defunto è morto a Roma, ma i beni che ricadono nella comunione sono alcuni immobili che si trovano a Venezia e alcuni beni mobili che si trovano a Napoli, il Tribunale competente è sempre
quello di Roma.
La domanda di divisione si presenta al Tribunale con un atto di citazione che deve essere redatto da un avvocato.
Il processo di divisione davanti al giudice è strutturato in due fasi.
La divisione giudiziale
In caso di divisione giudiziale, il Giudice redige il progetto di divisione avvalendosi, soprattutto per le
stime dei beni, di esperti che può nominare egli stesso.
Una volta definito il progetto di divisione, il giudice lo deposita in cancelleria, in modo che i coeredi che
partecipano al giudizio ne possano prendere visione.
Il giudice fissa anche un’udienza per la discussione del progetto, nella quale sono invitati a partecipare i
coeredi.
Se un coerede non partecipa all’udienza, la mancata partecipazione equivale all’accettazione del progetto di divisione predisposto dal giudice.
Se all’udienza fissata dal giudice non sorgono contestazioni, lo stesso approva il progetto di divisione dichiarandolo esecutivo e stabilisce le modalità con i quali i lotti verranno attribuiti a ogni coerede.
Se sorgono contestazioni sul progetto di divisione, come potrebbe essere, ad esempio, la stima di un bene, viene instaurato un giudizio al termine del quale il giudice modifica il progetto di divisione e decide sulle contestazioni con un’apposita sentenza.
Dopo che eventuali contestazioni sono state risolte e il progetto divisionale è stato dichiarato esecutivo, le singole porzioni possono essere attribuite a ogni coerede.
Se i coeredi hanno quote tra loro diverse, le porzioni, che avranno valore tra loro diverso, vengono assegnate direttamente ai coeredi ai quali spettano.
Se i coeredi concorrono in misura uguale, ad esempio, tre eredi che concorrono ognuno per un terzo, e non trovano un accordo sulla ripartizione, l’assegnazione di ogni porzione avverrà con estrazione a sorte.
La divisione a domanda congiunta
La divisione “a domanda congiunta” è disciplinata all’articolo 791 bis del codice di procedura civile.
Quando non ci sono contestazioni, ci si può rivolgere al Tribunale in modo che il giudice nomini un notaio o un avvocato al quale affidare le modalità della divisione.
In questo caso, la divisione viene detta “a domanda congiunta” perché il ricorso è presentato dagli interessati.
Se manca qualche firma il ricorso viene dichiarato inammissibile e la procedura si blocca.
Dopo avere sentito le parti, il professionista incaricato a predispone il progetto di divisione dispone la vendita dei beni agevolmente divisibili.
Ogni interessato può ricorrere al giudice entro trenta giorni, al fine di opporsi alla vendita dei beni o contestare il progetto di divisione.
Se non ci sono opposizioni, il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto e chiede al professionista incaricato di portare a termine la divisione.

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Disposizioni del “decreto rilancio” in tema di rivalutazione di partecipazioni e terreni

L’emergenza Coronavirus ha determinato un’alluvione di provvedimenti legislativi emergenziali, molti dei quali miranti alla sospensione o alla proroga di scadenze fiscali aventi una diretta e rilevante incidenza sull’attività notarile (basti citare la sospensione dei termini in materia di agevolazioni fiscali per acquisto “prima casa”, introdotta dall’art. 24 D.L. 8 aprile 2020, n. 23, o quella in tema di presentazione della dichiarazione di successione, di cui al D.L. 17 marzo 2020, n. 18, come da Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 8/E del 3 aprile 2020).

Tra tali norme spicca l’art. 137 D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. decreto rilancio), che ha disposto una “eccezionale” proroga infrannuale, per l’anno 2020, dei termini relativi al procedimento di rivalutazione delle partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentari e dei terreni di cui agli artt. 5 e 7 l. 28 dicembre 2001, n. 448.

di Edoardo Moroni notaio in Milano

Come da consuetudine, infatti, il legislatore nella legge di bilancio per l’anno 2020 (art. 1, commi 693 e 694, l. 27 dicembre 2019, n. 160) aveva già provveduto alla rituale proroga dei termini per il possesso dei cespiti da rivalutare (al 1° gennaio 2020), per il pagamento dell’imposta sostitutiva (al 30 giugno 2020) e per la redazione e giuramento della perizia (al 30 giugno 2020).

Col recente intervento gli stessi termini sono stati ulteriormente differiti:

  • al 1° luglio 2020, quanto alla data di riferimento per il possesso delle partecipazioni e dei terreni;
  • al 30 settembre 2020, sia per la decorrenza del pagamento integrale o della prima rata dell’imposta sostitutiva, sia per il termine perentorio entro il quale provvedere alla redazione e al giuramento della perizia.

Si rammenta che:

  • oggetto della rivalutazione in parola sono le partecipazioni non negoziate in mercati regolamentati (qualificate o non qualificate ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. c e c-bis, T.U.I.R.) e i terreni edificabili e con destinazione agricola, posseduti da persone fisiche (che non li possiedono in regime di impresa), società semplici e associazioni ad esse fiscalmente equiparate, enti non commerciali e soggetti non residenti le cui plusvalenze sono imponibili in Italia;
  • l’imposta sostitutiva può essere pagata in unica soluzione, entro il termine sopra indicato, ovvero rateizzata sino ad un massimo di tre rate annuali di pari importo, la prima delle quali da pagarsi entro il medesimo termine; sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti interessi nella misura del 3% annuo, da versarsi contestualmente a ciascuna rata;
  • l’importo dell’imposta sostitutiva rimane fissato, in ogni caso, all’aliquota dell’11%, sia per le partecipazioni sia per i terreni (parificazione già prevista per la proroga contenuta nella legge di bilancio 2020);
  • per le partecipazioni per le quali il contribuente si è avvalso della rivalutazione (riferita alla frazione di patrimonio netto dalle stesse rappresentata), gli intermediari abilitati all’applicazione dell’imposta sostitutiva di cui al d. lgs. 21 novembre 1997, n. 461, e s.m.i. (imposta sul c.d. capital gain) tengono conto del nuovo valore in luogo del costo di acquisto soltanto se prima della realizzazione della plusvalenza ricevono copia della perizia;
  • per i terreni, il valore risultante dalla perizia di stima costituisce “valore normale minimo di riferimento” ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta di registro.

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Responsabilità del proprietario di un animale

Il fatto

Innanzi all’adito Tribunale di Milano l’attore chiede di essere risarcito dei danni (alla persona) riportati a seguito di un incidente a lui occorso a causa di un cane di grossa taglia che, sfuggito al controllo del suo padrone per rincorrere un gatto randagio, colpiva la scala in cima alla quale egli attore si trovava per eseguire dei lavori all’esterno del suo appartamento così rovinando violentemente in terra.

La decisione del Tribunale di Milano

La vicenda, come innanzi brevemente descritta, è ricondotta dal Giudice di Milano nell’alveo della norma di cui all’art. 2052 c.c. che, nel disciplinare i danni cagionati da animali, contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva per liberarsi dalla quale sul convenuto grava l’onere di provare il caso fortuito.

La disposizione codicistica in esame pone, invero, una responsabilità che si fonda non già su un comportamento o un’attività commissiva o omissiva del proprietario dell’animale (o di chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso) bensì su una relazione (di proprietà o di uso che impone la custodia e la sorveglianza) intercorrente tra i predetti soggetti e l’animale.

Con la precisazione che: «ai sensi dell’art. 2052 c.c., la responsabilità del proprietario dell’animale è alternativa rispetto a quella del soggetto che ha in uso il medesimo (sentenze 9 dicembre 1992, n. 13016; 12 settembre 2000, n. 12025, e 7 luglio 2010, n. 16023)» (Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2014, n. 2414; App. Campobasso, 25 luglio 2017).

La norma poi, quale limite di tale responsabilità, prevede l’intervento di un fattore («il caso fortuito») che attiene non ad un comportamento del responsabile ma alle modalità di causazione del danno: la rilevanza del fortuito deve essere cioè apprezzata sotto il profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre ad un elemento esterno, anziché all’animale che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi (Cass. civ. sez. III, 20 maggio 2016, n. 10402).

Spetta quindi all’attore provare l’esistenza del rapporto eziologico tra il comportamento dell’animale e l’evento dannoso secundum o contra naturam, comprendendosi, in tale concetto, qualsiasi atto o moto dell’animale quod sensu caret, mentre il convenuto, da parte sua, per liberarsi dalla responsabilità, deve provare – come anticipato – non già di essere esente da colpa o di aver usato la comune diligenza e prudenza nella custodia dell’animale, bensì l’esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.

Pertanto, se la prova liberatoria richiesta dalla norma – che può anche consistere nel comportamento del danneggiato, che per assurgere a fattore esterno idoneo a cagionare il danno deve avere i caratteri della imprevedibilità, inevitabilità e assoluta eccezionalità (caso fortuito incidente che assorba l’intero rapporto causale), ovvero della condotta colposa, specifica o generica (caso fortuito concorrente con il comportamento dell’animale nella produzione eziologica dell’evento dannoso) – non viene fornita, del danno risponde il proprietario (o l’utilizzatore) dell’animale, essendo irrilevante che il comportamento dannoso di questo sia stato causato da suoi impulsi interni imprevedibili o inevitabili (Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2016, n. 12392).

Si è osservato in giurisprudenza:

– «nella norma dell’art. 2052 c.c. il comportamento che assume rilevanza causale è certamente quello dell’animale, atteso che la norma riferisce il “cagionare il danno” all’animale e, dunque, sottende che esso debba causalmente ricollegarsi al comportamento dello stesso. Se tale collegamento causale sussiste, il danno cagionato dall’animale viene imputato al proprietario o a chi se ne serve, sia che l’animale fosse sotto la sua custodia (…) sia che fosse sfuggito o smarrito, incombendo su di lui per sottrarsi all’imputazione della responsabilità la prova del caso fortuito» (Cass. civ., sez. III, ordinanza, 29 agosto 2019, n. 21772);

– «è vero che l’art. 2052 c.c., configura una responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell’utilizzatore dell’animale, e che il danneggiato deve limitarsi a provare il nesso eziologico tra il comportamento dell’animale e il danno, incombendo sul danneggiante la prova del fortuito ma è altresì vero che, in mancanza di un fattore esterno idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra il comportamento dell’animale e l’evento lesivo, comprensivo del fatto del terzo o del fatto colposo del danneggiato, la responsabilità resta imputata a chi si trova in relazione con l’animale perchè ne è proprietario o perchè ha comunque un rapporto di custodia sul medesimo» (Cass. civ. sez. III, 19 luglio 2019, n. 19506).

Una delle ipotesi di maggiore ricorrenza, quanto all’applicabilità della disposizione in esame, è quella dei danni subiti a seguito dell’attività di equitazione (notoriamente annoverata tra le attività pericolose ex art. 2050 c.c.) avendo la giurisprudenza precisato, di recente, che, se il cavallerizzo è esperto, la medesima attività rientra nello schema ex art. 2052 c.c. (Cass. civ. sez. III, ordinanza, 8 marzo 2019, n. 6737).

Altro tema è quello del danno cagionato dalla fauna selvatica o dagli animali randagi (si pensi soprattutto al danno ai veicoli in circolazione). Si tratta di ipotesi non risarcibili né dall’art. 2052 c.c., né per eadem ratio dall’art. 2051 c.c., che non possono applicarsi a tali animali giacché il loro stato di libertà è incompatibile con un qualsiasi obbligo di custodia (da parte della P.A.); troverà quindi applicazione l’art. 2043 c.c. così richiedendosi, in tema di onere della prova, l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (ex multisCass. civ. sez. III, 20 novembre 2009, n. 24547Cass. civ. sez. III, 21 novembre 2008, n. 27673Cass. civ. sez. III, 25 marzo 2006, n. 7080Cass. civ. sez. III, 13 gennaio 2009, n. 467Cass. civ. sez. III, 24 aprile 2014; n. 9276Cass. civ. sez. III, 4 marzo 2010; n. 5202Cass. civ. sez. III, 21 novembre 2017, n. 27543Cass. civ. sez. VI – 3, ord., 29 maggio 2018, n. 13488).

In la senso da ultimo si veda Cass. civ. sez. III, ord., 27 febbraio 2019, n. 5722 secondo cui, espressamente: «La gestione della fauna assegnata alla regione (alla stregua della L. n. 157 del 1992 che all’art. 26 prevede la costituzione di fondo per il risarcimento dei danni alle coltivazioni cagionati dalla detta fauna), non comporta … che qualunque danno cagionato da essa sia addebitabile all’ente territoriale preposto, occorrendo l’allegazione, o quantomeno la specifica indicazione, di una condotta omissiva efficiente sul piano della presumibile sua ricollegabilità al danno ricevuto (quale la anomala incontrollata presenza di molti animali selvatici sul posto – l’esistenza di fonti incontrollate di richiamo di detta selvaggina verso la sede stradale – la mancata adozione di tecniche di captazione degli animali verso le aree boscose e lontane da strade e agglomerati urbani etc., v. Cass. sez. I, sentenza n. 9276 del 24/04/2014)».

Infine, nel caso di danno derivante da un incidente stradale (precisamente dall’urto tra un veicolo e un animale) la presunzione di colpa a carico del proprietario – o dell’utilizzatore – dell’animale (ex art. 2052 c.c.) concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo ex art. 2054, 1 comma 1, c.c., in quanto tale ultima norma esprime principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscono danni dalla circolazione.

Riferimenti normativi:

Art. 2052 c.c.

Art. 2043 c.c.

Art. 2050 c.c.

Art. 2051 c.c.

©Quotidiano WKI ( https://www.quotidianogiuridico.it/documents/2020/06/16/cani-che-inseguono-gatti-e-cadute-rovinose-responsabilita-ed-oneri-probatori )

Nessun rimprovero può essere mosso al tribunale italiano che ha deciso sull’affidamento di un minore: esclusa la violazione della CEDU

Pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva della tempestività con cui l’autorità giudiziaria italiana aveva deciso su un caso di affidamento di un minore, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, all’unanimità, irricevibile il ricorso. Il caso riguardava, in particolare, una procedura per l’assistenza all’infanzia tra genitori
di diverse nazionalità (italiano e rumeno). Nel 2009 la moglie del ricorrente aveva avviato un procedimento di divorzio e ha chiesto l’affidamento del figlio davanti ai tribunali rumeni, mentre un procedimento di separazione ed affidamento, presentato dal ricorrente nel 2007, era già pendente dinanzi ai tribunali italiani. Il tribunale rumeno aveva dichiarato il divorzio, concedendo l’affidamento del figlio alla madre nel 2012, mentre il tribunale italiano aveva disposto l’affidamento del figlio al padre nel 2013. Il ricorrente sosteneva che i tribunali italiani non avessero agito diligentemente a causa del fatto che il procedimento era durato sei anni, lamentando una violazione del suo diritto garantito dall’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione. La Corte di Strasburgo ha diversamente ritenuto che la decisione sull’affidamento del minore fosse stata assunta tempestivamente, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla norma convenzionale che tutela il diritto alla vita familiare. I giudici europei hanno quindi concluso che le autorità italiane avevano agito con la dovuta diligenza e avevano assunto tutte le misure che ci si poteva attendere da loro per assicurare che i ricorrenti mantenessero un legame familiare. Ha, tra l’altro, notato la Corte EDU che l’attività processuale svolta da parte del ricorrente e di sua moglie aveva avuto un’influenza decisiva sulla durata complessiva del procedimento e che il ricorrente non aveva esercitato alcuni rimedi. Il ricorso è stato dichiarato pertanto manifestamente infondato ed irricevibile.

Tratto da “Il quotidiano giuridico WK”

Separazione e divorzio: la posizione del minore

Una delle tematiche particolari che merita attenzione nell’ambito di cui trattasi è certamente quella dell’ascolto del minore nei procedimenti che lo riguardano, ove dovranno essere adottati provvedimenti in suo favore.
Il tema dell’ascolto del minore è diventato centrale da quando nel 2006 esso è stato introdotto esplicitamente come obbligatorio nel più frequente dei procedimenti familiari, quello di separazione e divorzio (art. 155 sexies cod. civ.).
Dottrina sul tema ha, infatti, precisato che l’ascolto del minore è attività che si svolge nei processi i cui esiti sono destinati ad incidere sulla vita del minore stesso – recte a produrre effetti nella sua sfera sostanziale – in una specifica proiezione di protezione del suo interesse “morale e materiale” (Lombardi, 2019).
L’ascolto del minore infradodicenne, è espressione del diritto di essere informato, principio inderogabile garantito a livello Costituzionale e Sovranazionale, nonché elemento di valutazione dell’interesse del
fanciullo, salvo che il giudice non ritenga l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore.
La scelta de giudice di non sentire il minore, va, in ogni caso, puntualmente motivata. (Cass. civ. sez. I, 17 aprile 2019, n. 10776).
Per quanto concerne il quadro normativo nel tema trattato è da dire che occorre far riferimento, nell’ordinamento civile italiano, agli artt. 315 bis, 336 bis e 337 octies, cod. civ., introdotti dalla L. 219/2012 e dal D. Lgs. 154/2013: a livello internazionale, è previsto dall’art. 12, Convenzione di New York e dall’art. 6, Convenzione di Strasburgo. Con la sentenza n. 12293/2010, i giudici della Suprema Corte hanno statuito che la mancata audizione del figlio non può ritenersi legittimata dal mero e generico
richiamo all’età, e che pertanto l’ascolto deve essere effettuato salvo che possa arrecare danno al minore.
Ancora la Cassazione ha ribadito che il giudice deve sempre valutare se ci sia un interesse superiore del figlio minore a non essere esposto al presumibile danno derivante dal coinvolgimento emotivo nella
controversia che opponga i genitori (Cass. Civ. n. 13241/2011).
L’art. 12 della Convenzione di New York richiede agli Stati di garantire al fanciullo – capace di discernimento – il diritto di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo interessa, e che la sua opinione sia presa in seria considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità: a tal fine, viene riconosciuta al minore la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo
appropriato, conformemente alle regole di procedura delle legislazioni nazionali.
E ancora il Regolamento CE n. 2201 del 27 novembre 2003, cosiddetto “Bruxelles II bis”, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di
responsabilità genitoriale, all’art. 23 lett. b) disponeva che le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute, salvo i casi d’urgenza, se “la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto”, di talché si assumeva che il mancato ascolto del minore non consente la circolazione della decisione negli Stati membri dell’Unione Europea.
Inoltre, le linee guida del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minori del 17 novembre 2010 hanno esplicitato il diritto del minore “di essere ascoltato e di esprimere la propria opinione”, propriamente sottolineando che l’ascolto attiene alla valutazione dell’interesse superiore dei minori e che il diritto del minore di essere ascoltato si combina con il diritto di essere informato.
Separazione e divorzio: la procedura di ascolto del minore
Anzitutto appare preliminare e doveroso ricordare come l’ascolto abbia lo scopo di assicurare ai figli una tutela effettiva dei loro diritti.
Quanto alla procedura da seguire, è da precisare che l’audizione è condotta dal giudice, (il Presidente o il giudice delegato nell’ambito dei procedimenti che lo riguardano) anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari.
Il giudice può autorizzare ad assistere all’ascolto i genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se nominato, ed il pubblico ministero.
Tutti questi soggetti possono proporre al giudice argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento.
Secondo autorevole dottrina sul tema, il minorenne passa quindi da soggetto passivo delle decisioni che lo coinvolgono, soprattutto nel momento della disgregazione e della crisi della sua famiglia, a soggetto attivo delle decisioni che lo concernono: si consacra, quindi, il suo diritto ad essere ascoltato, ma si sancisce anche lo speculare obbligo della sua audizione previsto dall’art. 337-octies c.c.. (Cosmai, 2019).
Preliminarmente all’ascolto, il giudice informa il minore della natura del procedimento e degli effetti dell’audizione: dell’adempimento è redatto processo verbale nel quale ne è descritto il contegno, ovvero è effettuata registrazione audio/video.
Quanto alle modalità di ascolto, esse possono essere di due tipi, ovvero: diretto, ovvero quando l’audizione da parte del giudice avviene in udienza, eventualmente, anche con un ausiliario esperto; indiretto, totalmente delegato ad un ausiliario anche nell’ambito di un Consulenza tecnica d’ufficio.
Secondo l’art. 12 della Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, che li prevede ambedue, l’ascolto diretto è quello svolto dal titolare della procedura, mentre quello indiretto avviene tramite un rappresentante del minore (i genitori, il tutore, un curatore speciale) o tramite un organo appropriato, i quali riferiscono poi al giudice l’opinione del minore. Anche l’ascolto indiretto formalmente consente perciò al bambino di esprimere le sue opinioni e di farle pervenire al giudice. Quando la legge italiana
dispone che il giudice deve sentire il minore intende un suo ascolto diretto: tale è la previsione per le procedure di adottabilità e di adozione in considerazione della rilevanza dei valori in discussione. Nelle
procedure separative invece è previsto che il giudice “dispone” l’audizione del figlio minore, per cui è chiaro che può esserci il suo ascolto diretto o indiretto (art. 15 sexies cod. civ.). In tutti i casi in cui manca una norma specifica e si applica come integratrice la disposizione generale dell’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 può essere sufficiente l’ascolto indiretto tramite un rappresentante o un organo appropriato.
Secondo la giurisprudenza, l’audizione dei minori, già prevista nell’articolo 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, e dell’articolo 155-sexies c.c., introdotto dalla L. n. 54 del 2006 (v. oggi art. 336-bis c.c.), salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore.

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