5 criteri per l’assegnazione dell’assegno divorzile

Ai fini della liquidazione dell’assegno divorzile, deve essere posta
attenzione al criterio della formazione del patrimonio dell’altro
o di quello comune: l’eventuale squilibrio esistente tra gli ex
coniugi va messo in relazione con gli altri parametri di legge,
segnatamente al sacrificio delle aspettative professionali per
l’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare, a nulla rilevando
la maggiore ricchezza della parte astrattamente onerata.
Cassazione, 452 del 13 gennaio 2021

No alla riduzione dell’assegno divorzile in base a una asserita
“potenzialità lavorativa” della ex moglie senza tener conto
delle aspettative da lei sacrificate, né dell’apporto dato alla
costituzione del patrimonio familiare. Lo squilibrio giustifica
l’assegno quando sia riconducibile alle scelte comuni e alla
definizione dei ruoli all’interno della coppia e al sacrificio delle
aspettative di lavoro di uno dei due.
Cassazione, 3852 del 15 febbraio 2021

L’attribuzione dell’assegno divorzile richiede l’accertamento
dell’inadeguatezza dei mezzi del richiedente, cui si perviene
valutando comparativamente le condizioni economiche degli ex
coniugi, in considerazione del contributo fornito dal richiedente
al patrimonio e, soprattutto, tenendo conto delle aspettative
sacrificate. Se la Corte d’appello ha omesso queste valutazioni, si
impone un nuovo esame della questione.
Cassazione, 3853 del 15 febbraio 2021

Ben possono le relazioni investigative depositate da una
parte essere poste a base della decisione per escludere
l’assegno. Il giudice del merito ha ampiamente motivato la
sua decisione di non riconoscere il contributo, vista la piena
capacità lavorativa della richiedente desumibile dal rapporto
investigativo e in assenza della prova, a carico della
medesima, del contributo dato al patrimonio familiare.
Cassazione, 5077 del 25 febbraio 2021

Erra la Corte d’appello nell’affermare l’irrilevanza dell’obbligo
della ricerca di un lavoro da parte dell’ex coniuge che chiede
l’assegno; di più, nell’affermare come il profilo individuale della
richiedente non vada mortificato con possibili occupazioni
inadeguate, si viene a giustificare il rifiuto di un impiego non
esattamente adeguato al titolo di studio della richiedente,
conclusione da cassare quale principio errato.
Cassazione, 5932 del 4 marzo 2021

Articolo ALTALEX in materia di fondo patrimoniale

  • FAMIGLIA E SUCCESSIONI

Fondo patrimoniale: i beni sono sempre pignorabili?

L’esecuzione è inammissibile se i debiti sono contratti nell’esercizio dell’attività imprenditoriale (Cassazione, ordinanza n. 2904/2021)

Non è nella natura, contrattuale, legale o extracontrattuale, del debito contratto ma nella relazione esistente tra lo scopo dello stesso e i bisogni familiari che va ricercato il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento legittima l’esecuzione sui beni conferiti nel fondo patrimoniale.

L’ordinanza della Corte di cassazione n. 2904 del 8 febbraio 2021 (testo in calce) si sofferma su una delle questioni più dibattute in tema di fondo patrimoniale, quella cioè che vede a confronto le ragioni della famiglia, a cui presidio vige l’impignorabilità dei beni conferiti nel fondo, e quelle del ceto creditorio, volte a contrastare un uso distorto dell’istituto funzionale ad ostacolare l’esecuzione sui beni a destinazione vincolata, inserendosi nell’alveo di quel pensiero giurisprudenziale minoritario più recente che confuta la tradizionale lettura in senso ampio del concetto di bisogni della famiglia.

L’occasione della pronuncia è data alla Suprema Corte dall’iniziativa giudiziaria avviata da uno dei titolari del fondo patrimoniale colpito dall’azione esecutiva della banca creditrice nei suoi confronti di somme di denaro relative a fideiussione da questi prestate nell’ambito dell’attività imprenditoriale esercitata, vistosi respingere in primo grado la formulata opposizione alle esecuzione ex art. 615 c.p.c., e in secondo grado il gravame proposto avverso la pronuncia di rigetto dell’opposizione, sulla ritenuta inopponibilità alla creditrice procedente del conferimento in un fondo patrimoniale del bene oggetto di pignoramento (nella specie un appartamento con annesso garage).

Dopo aver ricordato che, a tutela del credito, contro la costituzione di un fondo patrimoniale ex art. 167 cod.civ. è ammessa l’azione revocatoria ordinaria ai sensi dell’art. 2901 c.c., “senza alcun discrimine circo lo scopo ulteriore da quest’ultimo (n.d.r. il debitore) avuto di mira nel compimento dell’atto dispositivo”, il supremo Collegio pone l’accento sul concetto di bisogni della famiglia al cui soddisfacimento sono vincolati i beni conferiti nel fondo patrimoniale, delineandone il contenuto.

Accogliendo la tesi che privilegia un concetto non restrittivo di bisogni della famiglia, tale da ricomprendere non solo le necessità c.d. essenziali o indispensabili della famiglia ma tutto quanto risulti essere necessario e funzionale allo svolgimento e allo sviluppo della vita familiare e al suo miglioramento del benessere anche economico, la Corte osserva che perché un debito possa dirsi contratto per il soddisfacimento di bisogni familiari, e quindi dare luogo all’azione esecutiva sul fondo patrimoniale, è necessario che la fonte e la ragione del rapporto obbligatorio abbiano inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia.   

Qualità che, secondo il Collegio investito, non è presente nelle obbligazioni derivanti dall’attività imprenditoriale o professionale, che di norma risultano avere inerenza diretta ed immediata con le esigenze della medesima attività, potendo assolvere solo indirettamente ed in via mediata ai soddisfacimento dei bisogni familiari, se e nella misura in cui con i proventi della propria attività imprenditoriale o professionale il coniuge, in adempimento ai propri doveri ex art. 143 c.c., vi faccia fronte.

Sulla scorta di tali richiamati principi, la Suprema Sezione ha censurato la pronuncia della Corte di merito gravata per non averne fatto corretta applicazione, nella parte in cui ha, in particolare e di contro, ravvisato nei contratti di garanzia stipulati dal coniuge ricorrente, sulla base di mere presunzioni e lamentando un difetto di allegazione su una diversa fonte di sostentamento del nucleo familiare – in tal modo invertendo indebitamente l’onere probatorio a carico del debitore -, obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia.

In accoglimento delle ragioni attore, pertanto, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza impugnata e rinviato alla Corte di merito, in diversa composizione, per un nuovo esame della vicenda, che non potrà prescindere dalla corretta applicazione dei richiamati e disattesi principi.

© https://www.altalex.com/documents/news/2021/02/19/fondo-patrimoniale-beni-sono-sempre-pignorabili

Assegno di mantenimento alla ex moglie ed al figlio

Corte di Cassazione Ordinanza del 23/07/2020 n. 15774

La Corte, in relazione all’assegno divorzile dell’ex moglie, ribadisce come, in ottemperanza alle recenti pronunce giurisprudenziali, la funzione di equilibrare il reddito degli ex coniugi nell’assegno divorzile “non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.

In merito all’assegno spettante al figlio minore non autosufficiente, la Corte ha stabilito che entrambi i genitori devono, in maniera proporzionale ai propri redditi, garantire al figlio lo stesso tenore di vita che aveva in costanza di matrimonio.

Da: diritto.it

Adozione di maggiorenne e mantenimento paterno

Ultimamente la Corte di Cassazione si è occupata del caso in cui il padre di sue figlie – non autosufficienti, affidate alla madre -, a seguito dell’adozione delle stesse da parte del nuovo compagno della madre, ha chiesto la sensibile riduzione dell’assegno di mantenimento. La Suprema corte ha dichiarato ammissibile il ricorso rinviando alla Corte di Appello per la ridefinizione della somma. La Suprema Corte chiarisce che l’entità di tale mantenimento debba tenere conto che le figlie “siano ormai inserite nel contesto familiare creatosi” per effetto del matrimonio della loro madre con l’adottante che abbia”provveduto continuativamente, e non solo occasionalmente, anche alle loro esigenze e necessità quotidiane. Per questi motivi la Cassazione, ritenuto di dover accogliere la invocata violazione dell’art.337-septies c.c. in combinato disposto con l’art. 9 della L.n.898/1970 e della disciplina dell’adozione del maggiore di età, ha cassato il decreto impugnato con rinvio alla Corte di Appello per il corrispondente nuovo esame alla stregua del principio di diritto indicato.

Da: CF News

Giudizio di delibazione – Sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale – Domanda proposta da una sola parte – Rito di cognizione ordinaria – Applicabilità – Costituzione tardiva del convenuto – Conseguenze – Fattispecie

Nel giudizio di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, ove la relativa domanda sia proposta da uno solo dei coniugi, non trova applicazione la disciplina dei procedimenti camerali, ma quella del giudizio ordinario di cognizione, ai sensi dell’art. 796 c.p.c., sicché la costituzione del convenuto dinanzi alla corte d’appello deve ritenersi disciplinata dall’art. 167 c.p.c., che impone a tale parte, a pena di decadenza, di proporre nella comparsa di risposta le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio, nel termine stabilito per la costituzione dall’art. 166 c.p.c. (Nella specie la S.C. ha precisato che non assume rilievo l’intervenuto
differimento dell’udienza di comparizione delle parti, disposto ai sensi dell’art. 168-bis, comma 4, c.p.c., perché non opera, in tal caso, la disciplina dettata dall’art. 166 c.p.c. per l’ipotesi di cui al comma 5 dell’art. 168-bis, che è norma avente carattere eccezionale, pertanto non suscettibile di applicazione analogica).


Riferimenti normativi: Costituzione art. 7 com. 2, Cod. Proc. Civ. art. 166 CORTE COST.
PENDENTE, Cod. Proc. Civ. art. 167 com. 2 CORTE COST., Cod. Proc. Civ. art. 168 bis com. 4,
Cod. Proc. Civ. art. 168 bis com. 5, Cod. Proc. Civ. art. 796 CORTE COST., Cod. Proc. Civ. art.
797 CORTE COST., Legge 25/01/1985 num. 121 art. 8

Corte di Cassazione Sez. 1 – , Sentenza n. 8028 del 22/04/2020

Rapporti patrimoniali tra coniugi – Comunione legale dei beni – Società di persone – Ammissibilità – Domanda di accertamento della comproprietà dei beni sociali – Qualificazione della domanda – Recesso del socio – Liquidazione della quota –

Tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica, sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l’obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che potesse riqualificarsi come istanza di liquidazione della quota sociale, la domanda della moglie nei confronti del marito tesa
all’accertamento della comproprietà dei beni appartenenti ad una società in nome collettivo, di cui i coniugi in regime di comunione dei beni erano unici soci).

Riferimenti normativi: Cod. Civ. art. 159 CORTE COST., Cod. Civ. art. 2289, Cod. Civ. art. 2291, Cod. Proc. Civ. art. 112

Corte di Cassazione Prima Sezione Ordinanza n. 8222 del 27/04/2020

Divisione ereditaria

Quando più soggetti sono chiamati a succedere in un’eredità, non trovano un accordo per la ripartizione dei beni, e il defunto ha stabilito quali devono essere destinati a ognuno, il giudice, su domanda di uno
degli stessi coeredi, può provvedere alla ripartizione del patrimonio ereditario e allo scioglimento della comunione.

Se, alla morte di una persona, l’eredità spetta pro quota a più persone che l’accettano, si costituisce una comunione ereditaria.
I singoli eredi diventano tra loro, “coeredi”.
La comunione ereditaria ha per oggetto i beni che costituivano il patrimonio del defunto, con esclusione di quelli attribuiti dallo stesso a uno o più soggetti determinati, detti “legati”.
La comunione ereditaria si scioglie con la divisione dell’eredità e consiste nel frazionamento tra i diversi
eredi, in proporzione alla quota che spetta a ognuno, dei beni parte della comunione.
In questo modo, ogni singolo erede diventa unico proprietario esclusivo dei beni che gli vengono assegnati.
La divisione ereditaria può essere fatta in tre modi, dal defunto con il testamento, su accordo unanime dei coeredi, per mezzo di un procedimento giudiziale di divisione.
In questa circostanza, lo scioglimento della comunione si ha per ordine del giudice, su domanda di uno
qualsiasi dei coeredi.
Chi può chiedere la divisione giudiziale e chi deve partecipare al
giudizio
Ogni coerede, qualunque sia la quota che gli spetta, si può rivolgere al Tribunale per ottenere lo scioglimento della comunione e la divisione dei beni ereditari.
A partire dal 2013, prima di avviare una causa relativa a una divisione è si deve seguire un procedimento di mediazione davanti a un organismo riconosciuto dal Ministero della Giustizia, con l’assistenza di un avvocato.
Se la mediazione non viene esperita e la causa viene avviata lo stesso, entro la prima udienza il giudice può rilevare la “non procedibilità” della causa giudiziale.
La “non procedibilità” può essere fatta valere anche dalla controparte, vale a dire dal “convenuto”, che lo deve fare entro un preciso termine di decadenza.
Se la mediazione non riesce, la richiesta di divisione giudiziale può essere fatta in qualunque momento, anche a distanza di molti anni dall’apertura della successione, non essendo previsto nessun limite di tempo, salvo che il defunto abbia imposto che la divisione non si effettui sino al compimento del diciottesimo anno d’età del più giovane dei suoi eredi, oppure per un tempo massimo di cinque anni dalla sua morte.
Il giudizio di divisione deve essere promosso nei confronti dei coeredi che non abbiano rinunciato all’eredità e, se ce ne sono, dei creditori opponenti, vale a dire, i creditori di ogni erede che abbiano manifestato la loro opposizione.
AL giudizio devono partecipare anche i creditori che abbiano garanzie sui beni della massa ereditaria, come ad esempio, un’ipoteca iscritta su un immobile che apparteneva al defunto, e coloro che abbiano diritti su un bene immobile ereditario, come, ad esempio, l’inquilino che abbia in corso un contratto di locazione ultradecennale su un bene immobile oggetto di divisione.
Il Tribunale che segue il giudizio di divisione
Dopo avere tentato senza successo la mediazione con l’apposito procedimento, il coerede che voglia promuovere un giudizio di divisione si deve rivolgere al Tribunale del luogo nel quale si è aperta la successione, che coincide con l’ultimo domicilio del defunto.
Lo stesso se i beni che ricadono nella comunione si trovano in un luogo diverso.
Se ad esempio, il defunto è morto a Roma, ma i beni che ricadono nella comunione sono alcuni immobili che si trovano a Venezia e alcuni beni mobili che si trovano a Napoli, il Tribunale competente è sempre
quello di Roma.
La domanda di divisione si presenta al Tribunale con un atto di citazione che deve essere redatto da un avvocato.
Il processo di divisione davanti al giudice è strutturato in due fasi.
La divisione giudiziale
In caso di divisione giudiziale, il Giudice redige il progetto di divisione avvalendosi, soprattutto per le
stime dei beni, di esperti che può nominare egli stesso.
Una volta definito il progetto di divisione, il giudice lo deposita in cancelleria, in modo che i coeredi che
partecipano al giudizio ne possano prendere visione.
Il giudice fissa anche un’udienza per la discussione del progetto, nella quale sono invitati a partecipare i
coeredi.
Se un coerede non partecipa all’udienza, la mancata partecipazione equivale all’accettazione del progetto di divisione predisposto dal giudice.
Se all’udienza fissata dal giudice non sorgono contestazioni, lo stesso approva il progetto di divisione dichiarandolo esecutivo e stabilisce le modalità con i quali i lotti verranno attribuiti a ogni coerede.
Se sorgono contestazioni sul progetto di divisione, come potrebbe essere, ad esempio, la stima di un bene, viene instaurato un giudizio al termine del quale il giudice modifica il progetto di divisione e decide sulle contestazioni con un’apposita sentenza.
Dopo che eventuali contestazioni sono state risolte e il progetto divisionale è stato dichiarato esecutivo, le singole porzioni possono essere attribuite a ogni coerede.
Se i coeredi hanno quote tra loro diverse, le porzioni, che avranno valore tra loro diverso, vengono assegnate direttamente ai coeredi ai quali spettano.
Se i coeredi concorrono in misura uguale, ad esempio, tre eredi che concorrono ognuno per un terzo, e non trovano un accordo sulla ripartizione, l’assegnazione di ogni porzione avverrà con estrazione a sorte.
La divisione a domanda congiunta
La divisione “a domanda congiunta” è disciplinata all’articolo 791 bis del codice di procedura civile.
Quando non ci sono contestazioni, ci si può rivolgere al Tribunale in modo che il giudice nomini un notaio o un avvocato al quale affidare le modalità della divisione.
In questo caso, la divisione viene detta “a domanda congiunta” perché il ricorso è presentato dagli interessati.
Se manca qualche firma il ricorso viene dichiarato inammissibile e la procedura si blocca.
Dopo avere sentito le parti, il professionista incaricato a predispone il progetto di divisione dispone la vendita dei beni agevolmente divisibili.
Ogni interessato può ricorrere al giudice entro trenta giorni, al fine di opporsi alla vendita dei beni o contestare il progetto di divisione.
Se non ci sono opposizioni, il giudice dichiara esecutivo il progetto con decreto e chiede al professionista incaricato di portare a termine la divisione.

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Nessun rimprovero può essere mosso al tribunale italiano che ha deciso sull’affidamento di un minore: esclusa la violazione della CEDU

Pronunciandosi su un caso “italiano” in cui si discuteva della tempestività con cui l’autorità giudiziaria italiana aveva deciso su un caso di affidamento di un minore, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato, all’unanimità, irricevibile il ricorso. Il caso riguardava, in particolare, una procedura per l’assistenza all’infanzia tra genitori
di diverse nazionalità (italiano e rumeno). Nel 2009 la moglie del ricorrente aveva avviato un procedimento di divorzio e ha chiesto l’affidamento del figlio davanti ai tribunali rumeni, mentre un procedimento di separazione ed affidamento, presentato dal ricorrente nel 2007, era già pendente dinanzi ai tribunali italiani. Il tribunale rumeno aveva dichiarato il divorzio, concedendo l’affidamento del figlio alla madre nel 2012, mentre il tribunale italiano aveva disposto l’affidamento del figlio al padre nel 2013. Il ricorrente sosteneva che i tribunali italiani non avessero agito diligentemente a causa del fatto che il procedimento era durato sei anni, lamentando una violazione del suo diritto garantito dall’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione. La Corte di Strasburgo ha diversamente ritenuto che la decisione sull’affidamento del minore fosse stata assunta tempestivamente, nel rispetto dei requisiti richiesti dalla norma convenzionale che tutela il diritto alla vita familiare. I giudici europei hanno quindi concluso che le autorità italiane avevano agito con la dovuta diligenza e avevano assunto tutte le misure che ci si poteva attendere da loro per assicurare che i ricorrenti mantenessero un legame familiare. Ha, tra l’altro, notato la Corte EDU che l’attività processuale svolta da parte del ricorrente e di sua moglie aveva avuto un’influenza decisiva sulla durata complessiva del procedimento e che il ricorrente non aveva esercitato alcuni rimedi. Il ricorso è stato dichiarato pertanto manifestamente infondato ed irricevibile.

Tratto da “Il quotidiano giuridico WK”

Separazione e divorzio: la posizione del minore

Una delle tematiche particolari che merita attenzione nell’ambito di cui trattasi è certamente quella dell’ascolto del minore nei procedimenti che lo riguardano, ove dovranno essere adottati provvedimenti in suo favore.
Il tema dell’ascolto del minore è diventato centrale da quando nel 2006 esso è stato introdotto esplicitamente come obbligatorio nel più frequente dei procedimenti familiari, quello di separazione e divorzio (art. 155 sexies cod. civ.).
Dottrina sul tema ha, infatti, precisato che l’ascolto del minore è attività che si svolge nei processi i cui esiti sono destinati ad incidere sulla vita del minore stesso – recte a produrre effetti nella sua sfera sostanziale – in una specifica proiezione di protezione del suo interesse “morale e materiale” (Lombardi, 2019).
L’ascolto del minore infradodicenne, è espressione del diritto di essere informato, principio inderogabile garantito a livello Costituzionale e Sovranazionale, nonché elemento di valutazione dell’interesse del
fanciullo, salvo che il giudice non ritenga l’esame manifestamente superfluo o in contrasto con l’interesse del minore.
La scelta de giudice di non sentire il minore, va, in ogni caso, puntualmente motivata. (Cass. civ. sez. I, 17 aprile 2019, n. 10776).
Per quanto concerne il quadro normativo nel tema trattato è da dire che occorre far riferimento, nell’ordinamento civile italiano, agli artt. 315 bis, 336 bis e 337 octies, cod. civ., introdotti dalla L. 219/2012 e dal D. Lgs. 154/2013: a livello internazionale, è previsto dall’art. 12, Convenzione di New York e dall’art. 6, Convenzione di Strasburgo. Con la sentenza n. 12293/2010, i giudici della Suprema Corte hanno statuito che la mancata audizione del figlio non può ritenersi legittimata dal mero e generico
richiamo all’età, e che pertanto l’ascolto deve essere effettuato salvo che possa arrecare danno al minore.
Ancora la Cassazione ha ribadito che il giudice deve sempre valutare se ci sia un interesse superiore del figlio minore a non essere esposto al presumibile danno derivante dal coinvolgimento emotivo nella
controversia che opponga i genitori (Cass. Civ. n. 13241/2011).
L’art. 12 della Convenzione di New York richiede agli Stati di garantire al fanciullo – capace di discernimento – il diritto di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo interessa, e che la sua opinione sia presa in seria considerazione, tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità: a tal fine, viene riconosciuta al minore la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo
appropriato, conformemente alle regole di procedura delle legislazioni nazionali.
E ancora il Regolamento CE n. 2201 del 27 novembre 2003, cosiddetto “Bruxelles II bis”, relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di
responsabilità genitoriale, all’art. 23 lett. b) disponeva che le decisioni relative alla responsabilità genitoriale non sono riconosciute, salvo i casi d’urgenza, se “la decisione è stata resa senza che il minore abbia avuto la possibilità di essere ascoltato, in violazione dei principi fondamentali di procedura dello Stato membro richiesto”, di talché si assumeva che il mancato ascolto del minore non consente la circolazione della decisione negli Stati membri dell’Unione Europea.
Inoltre, le linee guida del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minori del 17 novembre 2010 hanno esplicitato il diritto del minore “di essere ascoltato e di esprimere la propria opinione”, propriamente sottolineando che l’ascolto attiene alla valutazione dell’interesse superiore dei minori e che il diritto del minore di essere ascoltato si combina con il diritto di essere informato.
Separazione e divorzio: la procedura di ascolto del minore
Anzitutto appare preliminare e doveroso ricordare come l’ascolto abbia lo scopo di assicurare ai figli una tutela effettiva dei loro diritti.
Quanto alla procedura da seguire, è da precisare che l’audizione è condotta dal giudice, (il Presidente o il giudice delegato nell’ambito dei procedimenti che lo riguardano) anche avvalendosi di esperti o di altri ausiliari.
Il giudice può autorizzare ad assistere all’ascolto i genitori, anche quando parti processuali del procedimento, i difensori delle parti, il curatore speciale del minore, se nominato, ed il pubblico ministero.
Tutti questi soggetti possono proporre al giudice argomenti e temi di approfondimento prima dell’inizio dell’adempimento.
Secondo autorevole dottrina sul tema, il minorenne passa quindi da soggetto passivo delle decisioni che lo coinvolgono, soprattutto nel momento della disgregazione e della crisi della sua famiglia, a soggetto attivo delle decisioni che lo concernono: si consacra, quindi, il suo diritto ad essere ascoltato, ma si sancisce anche lo speculare obbligo della sua audizione previsto dall’art. 337-octies c.c.. (Cosmai, 2019).
Preliminarmente all’ascolto, il giudice informa il minore della natura del procedimento e degli effetti dell’audizione: dell’adempimento è redatto processo verbale nel quale ne è descritto il contegno, ovvero è effettuata registrazione audio/video.
Quanto alle modalità di ascolto, esse possono essere di due tipi, ovvero: diretto, ovvero quando l’audizione da parte del giudice avviene in udienza, eventualmente, anche con un ausiliario esperto; indiretto, totalmente delegato ad un ausiliario anche nell’ambito di un Consulenza tecnica d’ufficio.
Secondo l’art. 12 della Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, che li prevede ambedue, l’ascolto diretto è quello svolto dal titolare della procedura, mentre quello indiretto avviene tramite un rappresentante del minore (i genitori, il tutore, un curatore speciale) o tramite un organo appropriato, i quali riferiscono poi al giudice l’opinione del minore. Anche l’ascolto indiretto formalmente consente perciò al bambino di esprimere le sue opinioni e di farle pervenire al giudice. Quando la legge italiana
dispone che il giudice deve sentire il minore intende un suo ascolto diretto: tale è la previsione per le procedure di adottabilità e di adozione in considerazione della rilevanza dei valori in discussione. Nelle
procedure separative invece è previsto che il giudice “dispone” l’audizione del figlio minore, per cui è chiaro che può esserci il suo ascolto diretto o indiretto (art. 15 sexies cod. civ.). In tutti i casi in cui manca una norma specifica e si applica come integratrice la disposizione generale dell’art. 12 della Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989 può essere sufficiente l’ascolto indiretto tramite un rappresentante o un organo appropriato.
Secondo la giurisprudenza, l’audizione dei minori, già prevista nell’articolo 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, è divenuta un adempimento necessario, nelle procedure giudiziarie che li riguardino, ed in particolare in quelle relative al loro affidamento ai genitori, ai sensi dell’articolo 6 della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996, ratificata con la L. n. 77 del 2003, e dell’articolo 155-sexies c.c., introdotto dalla L. n. 54 del 2006 (v. oggi art. 336-bis c.c.), salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con gli interessi superiori del minore.

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